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domenica 7 aprile 2024

 Imparare dalla natura per catturare anidride carbonica 2)

Allevare cozze, ostriche e altri molluschi 


Ogni anno, in tutto il mondo, si producono e si raccolgono, circa 22 milioni di tonnellate di molluschi bivalvi (mitili, vongole, ostriche...). 

In Italia, nel 2016, la produzione, prevalentemente  di mitili e vongole, è stata di 93.253 tonnellate.

Di questa enorme quantità, circa il 20% in peso è l'ottimo alimento che allieta le nostre cene, ricco di proteine, vitamine del gruppo B  e sali minerali essenziali, come iodio e fosforo.

Ma anche i gusci, circa il 70% del peso iniziale, sono una risorsa tutta da scoprire e valorizzare, in quanto , con un processo naturale, ci danno una mano, niente affatto trascurabile, per sottrarre stabilmente anidride carbonica dall'atmosfera terrestre e contribuire a contrastare il cambiamento climatico in atto.

E' un processo biologico, che trasforma un gas clima-alterante, l'anidride carbonica, in un composto solido, destinato a trasformarsi in sedimenti e rocce sedimentarie, la cui durata si può misurare in milioni di anni.

Infatti i robusti gusci di mitili, vongole e ostriche, per il 90-95 % sono fatti di carbonato di calcio, un sale insolubile, composto da Calcio, Carbonio e Ossigeno che i molluschi producono a partire dall'anidride carbonica presente disciolta nell'acqua.





 Recentemente  due diversi studi sul ruolo delle coltivazioni di molluschi bivalvi nella segregazione di anidride carboniuca, sono stati condotti in Italia:

Entrambi gli studi, applicando metodi di Life Cycle Analyses  (LCA),  hanno concluso che nelle condizioni ambientali presenti nei mari italiani e con i nostri attuali sistemi di coltivazione,  per ogni chilogrammo di mitili allevato, si sottraggono dall'ambiente da 233 a 80 grammi di CO2.

Questi risultati potrebbero permettere  di riconoscere ai miticoltori adeguati crediti di carbonio, un compenso economico proporzionato  quantità di anidride carbonica che i loro allevamenti sottraggono, in modo stabile,  all'atmosfera del pianeta.











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sabato 2 marzo 2024

Imparare dalla natura per catturare l'anidride carbonica 1)


"National Geographic", nel numero di Novembre del 2023, 

(https://www.nationalgeographic.com/premium/article/remove-carbon-emissions

ha dedicato un lungo articolo ai metodi che abbiamo a disposizione per togliere dall'atmosfera quantità significative di anidride carbonica.

Il problema che oggi hanno tutti i viventi  è rappresentato dai 2,4 trilioni di tonnellate di anidride carbonica che le attività umane, con lo sfruttamento di combustibili fossili, hanno aggiunto all'atmosfera del pianeta Terra, a partire dalla fine del diciannovesimo secolo.

Per questo motivo, la concentrazione planetaria di anidride carbonica  costantemente intorno  alle 270 parti per milione (ppm) nei secoli pre industriali, da circa 150 anni sta progressivamente aumentando, anno dopo anno.


Figura 1. Andamento della concentrazione di anidride carbonica nell'atmosfera terrestre, dalla fine del 1700 al 2020. Si è passati da 278 ppm degli anni pre-industriali, ai 417 ppm del 2020.

L'articolo di NG descrive dodici delle  tecniche di cattura della anidride carbonica, a suo avviso più promettenti.

Tra quelle meno costose e "facili" da realizzare, a terra e in mare, in ordine crescente di quantità di anidride carbonica sottratta stabilmente dall'atmosfera sono:

  • Tecniche agricole più intelligenti
  • Crescita di foreste
  • Conservazione delle aree costiere
  • Coltivazioni alghe in ambiente marino
  • Recupero degli ecosistemi
Tra  questi, il metodi che NG giudica avere un effetto potenziale moderato è la coltivazione di alghe in ambiente marino; la riforestazione comporterebbe l'assorbimento di una minore quantità di anidride carbonica ( da bassa a moderata), anche se a costi più bassi.

Risultati decisamente migliori, sempre secondo la rivista, a basso costo, ma difficili da realizzar,  si potrebbero ottenere con tecniche di mineralizzazione della anidride carbonica e fertilizzando gli oceani a favore di alghe e plancton.

National Geographic non parla di due tecniche  di cattura di anidride carbonica "basate sulla natura" di grande interesse per il nostro paese e per quelli che si affacciano sul Mediterraneo: la coltivazione di vongole e mitili e la tutela e lo sviluppo delle praterie di poseidonia.
Saranno i metodi di Carbon Capture and Storage che descriveremo nei due prossimi post.



sabato 30 dicembre 2023

Trattiamoli a “freddo”: riciclo meccanico dalle “miniere urbane” .


Come fanno carta e cartoni, imballaggi di plastica, lattine, tutti mescolati nella pattumiera a ritrovarsi, ben separati l’uno dall’altro, distinti per colore e ben impacchettati in grandi cubi della stessa dimensione, come si vede in queste due prime immagini?


In Italia, a “combattere” contro il “naturale” disordine dei rifiuti, provvede un esercito sempre più numeroso di cittadini che, a casa, in ufficio, nel loro negozio, differenziano diligentemente i loro scarti nelle sei  tipologie previste (vetro, carta e cartoni, imballaggi in plastica, metalli, organico e secco residuo) prima di consegnarli, per la raccolta domiciliare, negli appositi contenitori.

Subito dopo, interviene un altro piccolo esercito di operatori che, nei giorni previsti, provvede a raccogliere le singole frazioni.

Il passo successivo è quello che sfugge ai più, ma è quello più importante per garantire la realizzazione della nuova “economia  circolare”, quella che trasforma i vecchi rifiuti in una nuova risorsa,  in grado di dare nuova vita a carta, plastica, metalli…: le aziende che provvedono alla “valorizzazione” delle frazioni raccolte, realizzando una ulteriore selezione, finalizzata al riciclo, con metodi di tipo fisico e meccanico.

In Italia, nel 2022, nel solo settore di chi da una seconda vita delle materie plastiche, hanno operato  191 aziende, addette alla trasformazione, e altre 54, specializzate nel riciclo della plastica raccolta, tutte aziende aderenti all’Istituto per la Promozione delle Plastiche da Riciclo



Figura 1. Ciclo di operazioni per “ valorizzare” le plastiche raccolte in modo differenziato e avviarle al riutilizzo.

La Figura 1 mostra, in forma schematica, la sequenza di operazioni, di tipo meccanico, ottico e elettronico che permettono di separare i polimeri più facilmente riciclabili (polietilene, polietilene alta densità, polipropilene),  in base alla composizione chimica e al colore,  e immetterli in nuovi cicli produttivi.

In sintesi, aperti i sacchi usati per le raccolte domiciliari e di prossimità, i materiali raccolti, sono inseriti su un nastro trasportatore dove avviene, spesso a mano, una prima separazione che elimina conferimenti errati (cartoni, legno, scarti elettronici…), successivamente un setaccio rotante provvede a separare frazioni di piccole dimensioni e in un passaggio successivo, flussi di aria a pressione effettuano la separazione tra imballaggi pesanti (flaconi..) e leggeri (buste, fogli..).

Un trituratore provvede a ridurre in piccoli pezzi le plastiche selezionate che sono separate per colore e composizione chimica che, in questo schema,  prevede il riuso solo di polietilene (PE), polietilene ad alta densità (HDPE) e polipropilene (PP). 

In questa figura si prevede che tutte le altre plastiche non riciclabili e gli scarti combustibili, siano utilizzate per produrre calore. E’ un procedimento utilizzato, la cosiddetta “termovalorizzazione”, ma non obbligatorio.

La natura inerte di questi residui ne può permettere lo stoccaggio temporaneo, in previsione di un riciclo di tipo chimico, già ora tecnicamente possibile e di sicuro sviluppo nei prossimi anni.

In Italia, nel 2022, con simili trattamenti meccanici, grazie a cittadini e aziende che amano il riciclo, con riferimento solo agli imballaggi, sono stati avviati al riuso e al riciclo:

- 418.000 ton di acciaio
- 60.000 ton di alluminio
- 4.311.000 ton di carta
- 2.147.000 ton di legno
- 1.122.000 ton  di plastica e bioplastica
- 2.293.000 ton di vetro 

E, sempre nel 2022, complessivamente l’80,5% degli imballaggi  immessi  al consumo in Italia e’ stato raccolto in modo differenziato e riciclato.

Utile ricordare che, di fatto, il costo del recupero e del riciclo di tutti gli imballaggi e’ a carico di chi li acquista, in quanto, nel prezzo di un prodotto imballato (cibo, bevanda, bene di consumo…) è inserito una apposita onere, finalizzato al riciclo dell’imballaggio. 



E’ evidente la partita vincente della raccolta differenziata e del riciclo e la necessità e opportunità di fare di più e meglio.

Peccato che il governo Meloni marci contro. Il rinvio al prossimo anno della tassazione prevista dalla UE sui prodotti “usa e getta”, ha fatto un favore alle tante piccole aziende del settore, ma ha danneggiate quelle nuove, che stanno investendo sul riciclo delle plastiche usate, il cui costo, nella situazione attuale, e’ maggiore di quelle delle plastiche “vergini”, ottenute dal petrolio e dal gas fossili e quindi pesantemente clima alteranti. 

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martedì 26 dicembre 2023

Trattiamoli a "freddo": riciclo chimico delle plastiche miste

 

La nostra generazione ha scoperto le plastiche con “Carosello”, il siparietto serale di pubblicità, comparso nel 1957, con le prime trasmissioni televisive. 

Alla scoperta ci ha guidato l'attore comico Gino Bramieri che, dopo aver fatto vari disastri, improvvisandosi "donna di casa", concludeva con: “ E mo? E mo, Moplen,”. 

Senza saperlo, stavamo assistendo all’avvio della rivoluzione che introduceva nelle case, e poi in tutti gli ecosistemi del pianeta, uno dei primi polimeri, una macromolecola, mai esistita prima, il cui nome commerciale era, appunto, "Moplen", con riferimento alla Montedison, che lo produceva a Ferrara, a partire dal 1957.

E la caratteristica, vantata da Bramieri,  era che il catino di “moplen”  che sostituiva quello in stagno zincato, era leggero, non arrugginiva e non si rompeva: una serie di vantaggi che, pochi decenni dopo, si sarebbero trasformati nell’attuale problema planetario delle “microplastiche”.

Il nome chimico del Moplen e’ poli-propilene, una invenzione tutta italiana, fatta nel 1954 dal professor Giulio Natta  che,  per questo, vinse il premio Nobel nel 1963.

Come suggerisce il nome, il poli-propilene  e’ una lunga molecola (polimero)  fatta da molecole  più piccole (propilene), unite insieme.

In particolare, il nome chimico del  “Moplen” è “poli-propilene isotattico” e il termine "isotattico" sottolinea l'organizzazione simmetrica di questa macromolecola, in cui i  gruppi metilici (CH3 ) e gli atomi di idrogeno sono regolarmente distribuiti lungo la catena del polimero. 




Figura 1. Struttura molecolare del poli-propilene isotattico.
In rosso gli atomi di carbonio, in blu gli atomi di idrogeno



Figura 2. Struttura molecolare  di propilene e poli-propilene


Da questa prima scoperta sono nate tutte le altre “macromolecole", decine di diverse "grandi molecole",  materie plastiche  con strutture molecolari organizzate ad arte, per offrire vantaggi e caratteristiche diverse: resistenza agli urti, impermeabilità a gas, trasparenza, leggerezza,…

Tutto questo, a partire da una miscela complessa e variabile di idrocarburi gassosi, liquidi e solidi estratti dalle viscere della terra, petrolio e  gas naturale, successivamente trattati in impianti petrolchimici, con processi chimico-fisici complessi e supportati da “catalizzatori” che aumentano le rese e guidano le trasformazioni chimiche, verso prodotti con le caratteristiche desiderate.

Quindi non dovrebbe stupire che le conoscenze sviluppate dai chimici per la produzione di polimeri possano essere applicate anche al riciclo e riutilizzo di polimeri di scarto, compresi le plastiche miste da raccolte differenziate di qualità non particolarmente elevata

In effetti le caratteristiche di questa frazione (abbondanza di carbonio organico, presenza di molecole organiche di composizione diversa, impurezze...,) rimandano alle caratteristiche del petrolio, miscele complesse di idrocarburi "fossili" dai quali processi fisici e chimici, altrettanto complessi,  riescono a produrre combustibili, manufatti, tessuti, detergenti, solventi, lubrificanti...


Figura 3. Processi utilizzabili per il riciclo avanzato dei materiali di plastica post consumo

La Figura 3 sintetizza i numerosi procedimenti attualmente messi in atto per "riciclare" gli scarti polimerici.

Nella Figura 3,  al primo posto a destra, c'è anche l'incenerimento con recupero energetico che, ovviamente, non è una forma di riciclo chimico.

L'incenerimento non è una forma di "riciclo" della materia perché le macromolecole, portate a temperature maggiori di 850°C, in presenza di ossigeno,  si trasformano in anidride carbonica la quale, vista l'origine fossile del carbonio presente nelle plastiche,  dà un pesante contributo al cambiamento  climatico. Quindi, correttamente, questa emissione sarà pesantemente tassata, a danno di aziende e famiglie che saranno costrette a pagare TARI molto più salate.

Anche gasificazione, pirolisi e depolimerizzazione sono trattamenti a "caldo" in quanto ci vuole molta energia "termica" per rompere i legami che, nei polimeri,  tengono insieme i monomeri, le molecole alla base delle catene polimeriche.

I processi di trasformazione con cui si trattano le miscele di polimeri "post consumo", per essere considerati un vero "riciclo chimico", devono avere come prodotto finale  nuovi composti chimici da immettere all'uso, dando la priorità a nuovi polimeri.

Critiche, sulla reale "ciclicità" di tecniche che utilizzano la pirolisi di polimeri post consumo  per produrre oli e combustibili, sono state formulate da Zero Waste Europe.

    Grazie ai diversi approcci offerti dalla chimica delle macromolecole, sono numerose le aziende chimiche che stanno investendo per trasformare, in risorsa, l'immensa quantità di plastiche che ogni anno, dopo una breve vita utile, si trasformano in rifiuti: nel 2019, a livello mondiale, sono stati prodotte 450 milioni di tonnellate di polimeri, di cui il 70%  è finito in discarica o è stato abbandonato nell'ambiente.

E in Italia, nel 2020, sono stati immessi nel mercato 5,9 milioni di tonnellate di plastiche, di cui solo 1,6 milioni di tonnellate sono state differenziati.

Oggi, delle plastiche raccolte in modo differenziato in Italia, solo il 39%  (624.000 tonnellate) è stato riciclato, il resto incenerito o inviato in discarica.

Ma tutto fa pensare che le cose stiano cambiando.

E proprio a Ferrara, a distanza di oltre sessanta anni, negli stessi laboratori dove è nato il  "Moplen",  suoi "discendenti" sono  rinati a seconda vita.

1) La "rinascita" avviene grazie al processo MoReTec,  che si basa sulla pirolisi catalitica, messa a punto dalla LyondellBasell, in un impianto pilota localizzato a Ferrara, della BasellPolietilene Italia spa.

Alla fine di novembre 2023, la LyondellBasell ha annunciato la costruzione a Wesseling (Germania)  di un impianto di riciclo chimico di 50.000 tonnellate/anno di scarti di imballaggio, in prevalenza poliolefine ( polietilene, polipropilene, poli-iso butilene) che si prevede possa entrare in funzione nel 2025. Con questo metodo, l'olio ottenuto con la pirolisi, sarà usato per produrre nuovi polimeri.

2) E' in fase di realizzazione a Chieti, l' impianto pilota, su scala industriale, per il riciclo chimico di PoliEtilenTereftalato (PET) e il Poliestere con il processo GR3N basato sull'idrolisi alcalina e sull'uso di micronde per accelerare la depolimerizzazione degli scarti e il successivo riuso dei monomeri.

3) Nel 2023 è stato siglato un accordo tra SAIPEM e Garbo per l'industrializzazione del processo di riciclo chimico CHEMPET, che sarà realizzato a Cerano (Novara).

Con il processo ChemPET , che si basa sulla glicolisi, possono essere recuperati diversi prodotti a base di PET, difficilmente recuperabili con le attuali tecnologie di tipo meccanico: sfridi da termoformatura e vaschette multi-strato, sfridi e film accoppiati con alluminio, bottiglie in PET opaco (contenente additivi minerali  come TiO2, CaCO3, Silice), polveri di PET colorati, vassoi in PET nero, reggette in PET/PP, tessuti non tessuti, fibre miste poliestere/cotone.

Basato sulla tecnologia ChemPet, GR3N e Intectesa Industrial hanno siglato, sempre nel 2023, un accordo per realizzare, nel 2027, il primo impianto spagnolo di riciclo chimico di scarti di tessuti tessili.

5) ChemCycling è il processo di riciclo chimico, messo a punto dalla BASF , che utilizza la pirogassificazione a 300-700 C°,  in assenza di ossigeno, di poli-etile, polipropilene, polistirolo, plastiche multi strato. Il prodotto è un olio che viene utilizzato come materia seconda in ingresso negli impianti petrolchimicio dell BASF in sostituzione di materie fossili.

6) Infine, anche la Eastman,  ha deciso di investire in Francia  (Port- Jerone-sur-Seine), realizzando un impianto per il riciclo di 200.000 tonnellate/anno di scarti di poliesteri ,con la tecnica della metanolisi. I lavori partiranno nel 2026 e la piena attività è prevista per il 2030.

Tutto fa pensare che investire, oggi, in nuovi "termovalorizzatori" sia un clamoroso "fiasco" economico: raccolte differenziate sempre più efficaci e di migliore qualità, crescenti quantità di plastiche post consumo avviate al riuso e riciclo, taglieranno agli inceneritori con recupero energetici, combustibili e guadagni.

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martedì 8 agosto 2023

Economia circolare dei materiali post consumo liguri, senza termovalorizzazione

 

Nei primi giorni di agosto del 2023, la Giunta Regionale Ligure ha approvato la costituzione della Agenzia Regionale Rifiuti, affidandone  la direzione commissariale a Monica Giuliano.

Compito primario del Commissario e’ quello di favorire la rapida realizzazione dell’impiantistica per gestire gli scarti liguri, sia quelli  differenziati  che quelli  indifferenziati.

La presentazione dell’Agenzia parla esplicitamente di Trattamenti Meccanico Biologici (TMB) per l’inertizzazione delle frazioni non differenziate e di quattro impianti (uno per provincia) per la digestione anaerobica degli scarti biodegradabili differenziati alla fonte.

Si tratta di  impianti a “freddo” che permettono, insieme al riutilizzo degli scarti differenziati alla fonte, l’ulteriore recupero di materia (vetro, cellulosa, metalli, compost, metano…) da immettere in nuovi cicli produttivi. 

Negli interventi del presidente Toti  e  dell’assessore Giampedrone, con delega ai rifiuti, ha anche fatto capolino un trattamento “a caldo” non meglio precisato.

L’assessore Giampedrone ha accennato ad un impianto “Waste to Chemical” ( Composti chimici prodotti dai rifiuti), senza fornire altri dettagli: e’ possibile che si tratti di un impianto in grado di trasformare scarti non riciclabili, prevalentemente plastiche miste, in composti chimici più semplici (metano, ossido di carbonio, idrogeno ?) da usare in apposite “raffinerie” per produrre polimeri, carburanti, oli. Restiamo in attesa di chiarimenti. 

Il presidente Toti, invece, in alternativa  ha confermato la sua volontà che la Liguria abbia finalmente un  suo “termovalorizzatore” e si e’ sbilanciato a prevedere che possa avere una capacità annuale di 200.000 tonnellate e, se sarà il caso (quale ?) che possa avere anche una capacità maggiore (quanto?) , in modo che la Liguria possa  offrire servizi di “termovalorizzazione” ad altre regioni (quali?).

Dove si faranno tutti questi impianti non si sa. La scelta della localizzazione sarà compito del Commissario che, bontà sua,  prima consulterà i Sindaci interessati. 

Una consultazione doverosa, ma siamo pronti a scommettere che il Commissario ignorerà le popolazioni direttamente interessate, saltando a pie pari, in nome della  continua infinita emergenza italica, l’obbligo di coinvolgerle direttamente, come prevedono le procedure per la Valutazione dell'Impatto Ambientale (VIA).

A riguardo, anche Matteo Campora, assessore all’ ambiente, ai rifiuti e all’energia del Comune di Genova si è sbilanciato, preannunciando che il Comune darà parere favorevole,  qualora la Regione chiedesse a Genova di  ospitare il “ termovalorizzatore “sul suo territorio.

E anche in questo caso, ci scommettiamo,  ai genovesi non sarà chiesto che cosa ne pensano.

E così, dopo ventiquattro anni dallo scampato pericolo di vedere un bel “termovalizzatore” sotto la Lanterna (http://federico-valerio.blogspot.com/2018/), sembra che si debba ricominciare da capo. 

Come se nulla fosse successo, nel frattempo,  in merito a  moderne e “sostenibili” gestioni dei nostri Materiali Post Consumo, rese obbligatorie dalle Direttive Comunitarie e dal buon senso.

E visto che ci costringono a ribadire i tanti motivi per cui “termovalorizzare” i rifiuti è una scelta stupida, cominciamo a spiegare per quali motivi, un impianto che brucia scarti urbani, dal punto di vista energetico, non valorizzi un bel niente, anzi sia un costoso e insensato spreco energetico.

Gli unici  scarti  urbani degni di attenzione, ai fini energetici, sono le tante plastiche “usa e getta”. La plastica maggiormente presente nei nostri mastelli per la differenziata e’ il polietilene, sotto forma di imballaggi, film, flaconi per detersivi e contenitori di alimenti…

Per produrre un chilo di polietilene, partendo dal petrolio e arrivare al prodotto finito, occorre usare 76 MegaJoule (MJ) di energia, sotto forma di calore e elettricità, prodotti con petrolio, carbone, metano, fonti energetiche rinnovabili.

Un chilo di polietilene, sia nuovo che usato, ha un potere calorifico di 46 MJ: questo significa che bruciando un chilo di polietilene si produce energia termica pari a 46 MJ, una quantità nettamente inferiore all’energia usata per produrre quel chilo di polietilene usato impropriamente come combustibile: 76 MJ.

Ma per le inevitabili leggi della chimica, della fisica e della termodinamica,  solo una parte di quei 76 MJ, con il “termovalizzatore”, si può trasformare in energia elettrica e calore utile. 

Visto che l’efficenza dei termovalizzatori italiani oggi in funzione si aggira sul 25%, l’energia che un “termovalorizzatore” mette a disposizione, “valorizzando” con il suo incenerimento,  un chilo di polietilene di scarto, si riduce a 12 MJ.

 Con 12 MJ di energia, volendo,  dopo aver estratto nuovo petrolio, averlo raffinato e trasformato in un impianto petrolchimico, in un nuovo polimero, si ottengono solo 160 dei 1.000 grammi di polietilene termodistrutti dall’incenerimento con recupero energetico!

E il bilancio energetico fatto per il polietilene, vale sostanzialmente per tutte le altre plastiche, così pure per carta e cartone.

E’ chiaro ora perché,  ridurre la produzione di beni “ usa e getta”, riusare, riciclare, sono scelte prioritarie e obbligatorie  per realizzare, in Italia e in Europa, una economia circolare, efficiente, in grado di durare nei seco,i a venire, a basso impatto ambientale e climatico?


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venerdì 23 giugno 2023

Trattiamoli a freddo: Trattamenti Meccanico Biologici

Con una raccolta differenziata spinta si ottengono diversi flussi di materiali (vetro, cellulosa, plastiche miste, metalli misti, frazioni biodegradabili...) che richiedono ulteriori lavorazioni di "raffinazione", necessarie per avere a disposizione materiali più "puliti" ed idonei per nuovi cicli produttivi.

Poi ci sono le frazioni che, per vari motivi,  non sono state differenziate alla fonte. 

Nel caso di Roma, si tratta di quelle 600.000 tonnellate all'anno che si sta ipotizzando di "termovalorizzare".

In entrambi i casi  (scarti differenziati e indifferenziati), per garantire un efficace recupero di materia e il suo riciclo finalizzato alla produzione di nuovi manufatti, sono a disposizione da alcuni decenni, impianti " a freddo" denominati Trattamenti Meccanico Biologici (TMB).

I trattamenti meccanici, con opportune tecniche, ampiamente collaudate e in fase di ulteriore sviluppo,  provvedono a separate i diversi tipi di metalli (ferro, alluminio...) , la carta dal cartone, il vetro in base al colore, le materie plastiche in base alla loro composizione chimica.

Con questi metodi gran parte dei materiali raccolti è avviato a nuovi cicli produttivi.

Gli scarti indifferenziati hanno il grave problema di essere composti da oltre il 30% di scarti putrescibili.

In questo caso il primo trattamento TMB è quello biologico, di fatto un compostaggio veloce in apposite biocelle con insufflazione d'aria. 

L'alta temperatura (60-70 C°) sviluppata dall'attività microbica che "composta" la componente biodegradabile, è sfruttata per essiccare e igienizzare l'intera massa trattata, con il duplice vantaggio di evitare la formazione di cattivi odori, di trasformare in anidride carbonica e acqua gran parte della frazione biodegradabile, di ridurre drasticamente il contenuto di acqua degli scarti.

In questo modo i materiali essiccati, più facilmente possono essere trattati con gli stessi sistemi "meccanici" e "fisici", illustrati in precedenza, e pertanto si può procedere al recupero di ulteriore materia differenziata da avviare a nuovi cicli produttivi.

Fig. 1. Flusso di materiali in un impianto di bio-essicazione  e separazione meccanica

La Figura 1 mostra come questo trattamento generi flussi di scarti non recuperabili con le attuali tecnologie e quindi destinate in discarica o al recupero energetico come Combustibile Solido Secondario (CSS) utilizzato da cementifici o da centrali termoelettriche alimentate a carbone.

Questa soluzione a caldo, di fatto una "termovalorizzazione",  ha diversi problemi tra i quali il principale è che i cementifici si fanno pagare per usare il CSS nei loro impianti!

Il CSS, più o meno raffinato, è di fatto costituito da polimeri di sintesi (plastiche e tessuti ) e da polimeri organici (cellulosa, lignina..)  sostanzialmente materiali inerti, il cui volume si può ridurre con idonee presse.

Fig. 2. Scaglie di plastiche miste da trattamento meccanico (impianto TMB di Montello)




Fig. 3. Balle di CSS pressato 

La proposta che sottoponiamo ai tecnici e ai decisori politici (motivata dai non trascurabili rischi ambientali della combustione degli scarti urbani, sia in impianti dedicati che in cementifici) è quella di realizzare delle vere e proprie miniere urbane in cui stoccare temporaneamente le balle prodotte da un impianto TMB, come quelle mostrate in Figura 3, realizzato per trattare sia  scarti indifferenziati che quelli differenziati di Roma.

Questo impianto TMB, di adeguata capacità (200.000 ton/anno?) definita  in base alla quantità di rifiuti indifferenziati residuali ad una energica politica di riduzione alla fonte e ad una raccolta differenziata di qualità, con costi più contenuti e minore impatto ambientale, potrebbe sostituire la scelta del "termovalorizzatore".

Certamente questo deposito temporaneo richiederà adeguati volumi, ma non bisogna dimenticare che il termovalorizzatore che si vorrebbe realizzare a servizio di Roma produrrà ogni anno 190.000 tonnellate di rifiuti solidi, in parte altamente pericolosi, che richiederanno apposite discariche, adeguatamente controllate.

E quanto potrebbe durare lo stoccaggio temporaneo? 


Tutto fa pensare che tra il 2025 e il 2030,  si possa cominciare a sfruttare le nostre "miniere urbane" se avremo avuto la sagacia di avviarle, e utilizzarle per la produzione di nuovi polimeri, destinati a durare nel tempo.

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martedì 20 giugno 2023

Trattiamoli a freddo: compostaggio e digestione

 E’ evidente che la nostra classe politica non abbia dimestichezza con la chimica e la tossicologia ambientale, altrimenti non si ostinerebbe, come sta facendo, a proporre “termovalozzatori” per risolvere più o meno fantomatiche emergenze rifiuti.

Come mostra, in sintesi,  la Figura 1 e’ proprio l’incenerimento che trasforma un problema di raccolta e di corretto riutilizzo di scarti, in pesanti problemi ambientali,  a causa delle complesse reazioni chimiche che avvengono in un forno di incenerimento.


Fig.1. L'incenerimento produce composti tossici, assenti (ossidi di azoto, o a concentrazione trascurabile (diossine e furani) o in forma innocua (solfuro di cadmio) negli scarti inceneriti
 
                 Per evitare tutti i problemi creati dall’incenerimento, basta ricorrere a trattamenti a “freddo”, di tipo biologico e meccanico e biologico, nei quali non si superano temperature di sessanta-settanta gradi centigradi e pertanto, intrinsecamente sicuri, dal punto di vista ambientale.

Per il trattamento “intelligente” di scarti umidi biodegradabili (scarti alimentari, sfalci, potature, deiezioni animali, fanghi da depurazioni acqua…)  esistono due collaudati processi biologici, nei quali micro-organismi di tipo diverso, già presenti nell’ambiente, sono messi nelle condizioni migliori per "cibarsi" di questi scarti e trasformarli in terriccio profumato di bosco (compost), da immettere nuovamente  nei cicli produttivi agricoli, e in gas, recuperabili e riutilizzabili, quali metano e anidride carbonica.

Questi trattamenti avvengono in impianti dedicati, opportunamente isolati rispetto all’esterno per ridurre al minimo i disagi olfattivi e, anche per questo,  da realizzarsi , se possibile, in zone agricole a bassa densità di popolazione.

Esistono due diverse procedure per il trattamento della frazione organica putrescibile, entrambe ben collaudate e con numerosi impianti operanti da tempo in tutto il mondo, compresa l’Italia: il compostaggio e la digestione anaerobica.

Il compostaggio avviene in presenza d’aria (ossigeno) e, dopo qualche decina di giorni di trattamento, gli scarti si stabilizzano, non sono più soggetti a processi  di putrefazione e non producono odori sgradevoli .

Il prodotto di questi trattamenti, che richiedono importanti quantità di scaglie di legno (cippato) recuperabili dalle potature di alberi e dal recupero di legname morto da alvei di fiumi e boschi e’ , come già detto,  il compost, utilizzato in campo agricolo e floro-vivaistico.


Compost maturo con lombrichi


Per effettuare il compostaggio in impianti dedicati, occorrono ampi spazi e ampia disponibilità di cippato di legno.

Con una corretta gestione  dei flussi d’aria in uscita dalle biocelle, e opportuni abbattimento dei composti odorigeni, il disagio olfattivo  e la carica microbica  diventano trascurabili  a 300-350 metri di distanza.


Figura 2. Impianto di compostaggio di Faenza per il trattamento di 30.000 tonnellate/anno
di scarti biodegradabili


Per la corretta gestione di grandi quantità di scarti organici di fonte urbana, in ambiti con limitata disponibilità di superfici utili e di cippato di legno, si preferisce ricorrere alla combinazione di tecniche di digestione anaerobica,e il successivo compostaggio del "digestato" mescolato a cippato di legno.

In questo tipo di impianti si ottiene metano e anidride carbonica di elevato grado di purezza e compost per uso agricolo.

Il metano è usato, come combustibile, per produrre calore e elettricità per la copertura dei  consumi energetici dell'impianto, può essere immesso nella reta di distribuzione del gas e, in forma liquida o compressa, è utilizzato per alimentare mezzi di trasporto,  compresi quelli usati per la raccolta dei rifiuti.

Nel 2020, in Italia erano operativi dodici impianti di biometano.

L'impianto operante a Montello  è quello con la massima capacità di trattamento annuo, pari a  765.000 tonnellate di scarti biodegradabili.

 Oltre a produrre biometano e compost,  questo impianto recupera anche l'anidride carbonica derivata dal processo di digestione e di purezza adatta al consumo umano (bibite gasate).

Figura 3. Impianto biometano di Montello (Brescia) , 765.000 ton/anno